Un epitaffio è un’iscrizione funebre che aveva lo scopo di onorare e ricordare un defunto. Il termine epitaffio deriva dal greco antico e può essere tradotto in “sepolcrale” o “discorso funebre”. È composto dai termini “sopra” e “tomba” e significa letteralmente "ciò che sta sopra al sepolcro". Spesso ha la forma di un breve componimento in versi, che di solito contiene anche le lodi del defunto. Presso gli antichi Greci, l’epitaffio era un discorso che veniva pronunciato da un oratore pubblico e mirava a celebrare gli eroi morti per la patria. Attualmente, l’epitaffio è la scritta che viene incisa su una lapide.
Esistono diversi esempi di epitaffi di vario tenore dedicati a poeti, scienziati, politici, cantanti, ecc. Ne riportiamo alcuni: "Qui giace uno il cui nome fu scritto nell’acqua" (John Keats, poeta); "La luce che brilla il doppio, dura la metà" (Jimi Hendrix); "Sono figlio della libertà e a lei devo tutto ciò che sono" (Camillo Benso Conte di Cavour); "Misuravo i cieli, ora misuro le ombre della Terra. Sebbene la mia mente fosse legata al cielo, l’ombra del mio corpo giace qui” (Giovanni Keplero, astronomo); “Correrai ancora più veloce per le vie del Cielo” (Tazio Nuvolari, pilota automobilistico); “C’è un’ape che se posa su un bottone di rosa: lo succhia e se ne va. Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa” (Trilussa, scrittore).
L’epitaffio più antico di cui si abbia conoscenza risale al 430 a. C., ed è un’orazione, pronunciata da Pericle, in onore dei caduti nella guerra del Peloponneso.
L’epitaffio serviva a raccontare la vita di un defunto, mentre lo si celebrava e salutava per l’ultima volta. Con il passare del tempo la sua struttura fu fissata in modo stabile. Era composto in versi e doveva rispettare delle regole precise. All’inizio c’era il preambolo che serviva a manifestare il dolore per la perdita e al contempo la difficoltà nel trovare le parole giuste da usare. A seguire, la parte narrativa che permetteva di raccontare le gesta del defunto. La parte centrale aveva lo scopo di ringraziare la persona deceduta per quanto aveva fatto durante la sua esistenza. Infine, c’era l’epilogo che aveva la funzione di consolare i familiari. Successivamente questa complessa struttura cambiò, riducendosi a una o più frasi scritte su una lapide.
In effetti, l’epitaffio, essendo una forma stilistica, è stato utilizzato anche al di fuori dell’ambito funebre. Un esempio famoso è l’Antologia di Spoon River, una raccolta di poesie di Edgar Lee Masters.
Attualmente, l’epitaffio è solo l’ultima scritta che si incide sulla lapide di un defunto. Essendo qualcosa che deve durare nel tempo, per la sua stesura è opportuno farsi consigliare dal personale delle onoranze funebri che organizzano il funerale, al fine di individuare le parole più giuste da lasciare ai posteri. Per redigere un epitaffio, è importante considerare tre aspetti: lo stile; il tono; la personalità del defunto. Lo stile è solitamente incisivo, breve e lineare, tenuto conto dello spazio limitato che si ha a disposizione. Le frasi dovranno essere semplici e d’effetto. Il tono sarà personale e rifletterà il carattere e la predisposizione tipica della persona scomparsa, per cui potrà essere ironico e leggero oppure serio e solenne. Si possono utilizzare anche testi già esistenti presi da testi sacri, da poesie, da citazioni o da canzoni.